Ho lavorato per quasi otto anni come consulente nel settore dell’IT e questa esperienza mi ha lasciato tanto sia dal punto di vista professionale che umano. Ho potuto confrontarmi con colleghi e clienti con differenti competenze e attitudini, e umanamente ho trovato tante persone di grande spessore e sensibilità, alcune delle quali sono diventate amicizie vere e durature.
Quel mondo però mi ha sempre suscitato sensazioni contrastanti, perché ho potuto toccare con mano degli aspetti che pur presenti anche in tanti altri contesti professionali probabilmente nel mondo della consulenza trovano la loro sublimazione e sono esasperati fin quasi al grottesco.
Un vecchio adagio delle mie parti recita più o meno così: “l’mportent nen iè a sapè fè ma a sapè deic” che tradotto significa letteralmente “la cosa più importante non è saper fare ma saper dire”, cioè sapersi vendere facendo credere agli altri di essere meglio di quello che realmente si è.
La giungla del mercato del lavoro, e l’IT in questo è stato un’avanguardia, costringe a far si che questo principio sia praticamente un dogma, perché le tariffe pagate dai clienti sono ormai talmente basse da mettere nelle condizioni i fornitori di dover fare le nozze coi fichi secchi.
Il consulente operativo posto davanti al cliente deve fingere non solo di essere un senior anche quando non sa neppure di cosa si stia parlando, ma pure di essere a capo di un team di progetto che nella realtà è spesso rappresentato da lui, sé stesso e dalla propria immagine riflessa. Praticamente la santissima trinità 2.0. Questo per il bene sia del bilancio aziendale che della propria reputazione.
Generalmente questo lavoratore indefesso viene trattato poco da inde e molto da fesso, ed ha competenze tecniche (pardon, skills) davvero notevoli, conosce flussi e linguaggi di programmazione meglio delle sue tasche ma difetta nelle capacità relazionali.
Il che lo condanna ad una gran bella vita di nerd.
Salendo di mansione si arriva alle figure mitologiche del PM e del commerciale. E qui la sostanza non cambia molto. A cambiare è più che altro il fatto che questo “saper dire” in questo caso ha come obiettivo quello di vendere sé stessi internamente all’azienda e l’azienda stessa al cliente finale.
E qui entra in scena il fattore fondamentale: la paraculaggine.
Il paraculo deve essere dotato di una caratteristica fondamentale: una buona eloquenza, cosa che non va però confusa con un elevato livello culturale. Le due cose sono certamente compatibili ma non è affatto detto che vadano di pari passo.
Questo professionista di solito dopo qualche anno di gavetta in trincea ha saputo far emergere il proprio “talento” persuasivo, magari avvalendosi anche della capacità di scegliersi le amicizie giuste all’interno dell’azienda, abilità che può fargli bruciare le tappe. E’ passato quindi da mansioni meramente operative a compiti organizzativi e relazionali.
I suoi migliori amici sono gli auricolari bluetooth e la mail aziendale.
I rapporti fra cliente e fornitore.
Lo scenario complessivo è reso tragicomico dal fatto che molti dei referenti e degli utenti dei clienti dell’IT sono ormai per la maggior parte ex consulenti, e le dinamiche “paraculatorie” sono un segreto di Pulcinella. Niente più di un teatrino in cui ognuna delle parti recita il suo ruolo facendo finta di essere il più furbo che fa fesso l’altro. Ogni tanto parte il sorrisino compiaciuto dopo una mail o una telefonata, ma ci si sta prendendo per i fondelli da soli e lo si sa fin troppo bene.
Le parole che non ti ho detto
Un altro aspetto che ho sempre trovato interessante è quello del lessico utilizzato fra colleghi. Lasciando perdere i casi di inutili ed esagerati inglesismi che al confronto gli “SHISH” di Renzi sono robetta da pischelletti, mi ha sempre molto divertito il fatto che ci fossero delle parole e delle espressioni divenute praticamente dei mantra di area aziendale, quasi fossero in grado di regalare dignità e identità all’interno del team. Il primo caso che mi viene in mente è l’utilizzo fuori luogo (avevo scritto alla cazzo di cane ma pareva brutto) della parola “banalmente”, inserita ossessivamente nel discorso senza alcuna ragione che lo giustifichi.
“Banalmente ci aggiorniamo nel pomeriggio”
“banalmente l’esigenza dell’utente è quella di inserire un controllo bloccante e non un messaggio di warning”
“possiamo partire con gli sviluppi fra un paio di giorni perchè la risorsa da voi richiesta banalmente è impegnata in un’attività pending”.
Infine una citazione è d’obbligo anche per i termini con cui si richiede al consulente di essere sempre disposto ad accettare qualsiasi richiesta lavorativa.
Se per Valerio Mastandrea i capisaldi del Supercafone dovevano essere: femmena, denaro e mortazza per il Superconsulente i “valori” imprescindibili sono: proattività, trasversalità e disponibilità al training on the job. Quest’ultima cosa in soldoni significa “vai avanti tu a fare figure di merda col cliente perché noi non abbiamo nessuna intenzione di investire per formarti”. Se uno ci pensa un attimo la prima cosa che gli viene in mente è questa scena di Bianco Rosso e Verdone.
In estrema sintesi, si potrebbe dire che il professionista dell’IT non è altro che un divulgatore di storytelling che più che al marketing fa pensare al marketting.
Ogni mattina nell’Information Technology sorge il sole. Non importa che tu sia consultant, delivery manager o project manager, l’importante è che cominci a produrre e che sia pronto a consegnare ieri il progetto che ti hanno affidato oggi.
P.S. Tra le varie cose belle successe in quegli otto anni, ricorderò sempre il fantastico colloquio di lavoro con quello che poi sarebbe stato il mio capo per alcuni anni. Nicola, probabilmente non lo leggerai mai, in ogni caso volevo dirti grazie. Ovviamente non solo per il colloquio.