Verdena: c’è chi dice Wow.

Quando Antonio Gramsci scriveva di odiare gli indifferenti i fratelli Luca e Alberto Ferrari e Roberta Sammarelli non erano ancora venuti al mondo.

Più o meno un’ottantina di anni dopo avrebbero fondato la loro creatura rock, i Verbena poi divenuti Verdena dando vita ad un caso piuttosto singolare nello scenario alternative rock italiano.

Da subito la band ha suscitato giudizi netti e trancianti. Amati alla follia o odiati e derisi, per alcuni geni per altri idioti in grado di prendere per il culo decine di migliaia di fans. In ogni caso assolutamente incapaci di lasciare indifferenti.

Formatisi nella campagna bergamasca, vicini geograficamente ma lontani il giusto dalla scintillante e modaiola Milano, i Verdena hanno palesato sin da subito un approccio agli strumenti e al rock estremamente diretto e incazzato, tanto da meritare agli esordi paragoni scomodi come quelli di Nirvana e i Pixies.

Ben presto il teatro delle loro ispirazioni sarà l’Henhouse, un vecchio pollaio situato dietro la casa dei fratelli Ferrari riconvertito in sala registrazioni. In questo luogo i tre si dedicano ad estenuanti jam session che finiscono per dare la vita alle loro creature.

E la campagna bergamasca, insieme all’indole schiva e riservata dei fratelli Ferrari, ha per loro stessa ammissione influenzato notevolmente lo stile e i tempi della loro scrittura.

Nessuna concezione alla fretta, zero ansia creativa, la lentezza come valore aggiunto in un mercato discografico che si lascia alle spalle chi non ha voglia di corrergli dietro.

Nei primi anni della loro carriera i Verdena hanno mostrato i muscoli producendo lavori più arrabbiati e potenti, mostrando però già allora una spiccata attitudine alla composizione di ballate intime ed efficaci.

Brani come Angie, Nel mio Letto o Trovami un modo semplice per uscirne mostrano una sorprendente capacità di cimentarsi con le ballads che fa pensare ai Rolling Stones.

Col tempo la band ha raggiunto un equilibrio musicale differente, in cui esplosioni e urla hanno lasciato il posto a composizioni più meditate, sempre contornate da un alone di inquietudine, e in cui si sono insinuati con discrezione anche synth ed echi di elettronica.

Con Wow nel 2011 i Verdena hanno probabilmente raggiunto l’apice della loro carriera, dando vita ad uno degli album italiani più belli e concettualmente rilevanti degli ultimi anni.

I fantasmi e i demoni che da sempre hanno popolato le loro canzoni sembrano muoversi da quel momento in un castello dalla struttura più solida, e palesano la propria presenza attraverso i sussurri e i lamenti di Alberto Ferrari.

Il successivo Endkadenz, uscito in due parti distinte, ha rafforzato l’impressione che l’eterna promessa dell’alternative rock italiano avesse finalmente indossato l’abito della maturità, un abito in cui sono aumentate le sfaccettature sonore e le ritmiche si sono fatte più irregolari ma meno frenetiche.

Un capitolo a parte nella storia dei Verdena meritano i testi. Con ogni probabilità sono stati proprio questi a rappresentare l’elemento divisivo in merito ai giudizi sul gruppo.

Alberto Ferrari autore esclusivo delle liriche – ha sempre sostenuto di dare precedenza alla musicalità delle parole rispetto al loro senso nel contesto, e che le stesse devono mettersi al servizio della musica e non viceversa. Tradotti dopo l’iniziale scrittura in inglese i suoi testi vengono poi destrutturati e rimescolati, secondo una sorta di tecnica del cut-up di Burroughs, cara anche agli Afterhours dei primi album.

Questo tipo di espedienti, uniti alla predilezione dell’aspetto evocativo delle parole rispetto a quello didascalico, molto utilizzati nel rock di matrice anglosassone, hanno per la verità sempre trovato forti resistenze in un Paese come il nostro, molto ancorato ad un cantautorato più classico.

Anche per queste ragioni difficilmente i Verdena riusciranno a mettere d’accordo estimatori e detrattori, indipendentemente da quello che verrà fuori dal pollaio senza troppi galli in cui abita la loro musica.

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